A Vibo pensavo solo a giocare e a farlo bene – ha raccontato ancora – ci sono posti meravigliosi e gente di cuore. Tornerei per allenare la Callipo. Il dialetto calabrese? No, troppo difficile”.

Nella valigia dei ricordi legati all’esperienza vibonese, durata solamente una stagione, il campione russo Yuri Cherednik, custodisce ancora il senso dell’accoglienza riservatogli dalla città. Era l’estate del 2002 quando la società del presidente Pippo Callipo annunciò quello che fu un vero e proprio colpo di mercato: il club calabrese si era assicurato le prestazioni sportive dello schiacciatore classe ’66, che con la maglia della sua Nazionale aveva ottenuto la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Seul 1988, quella di bronzo ai Mondiali del ’90 e nel ’91 titolo europeo, Coppa del Mondo e medaglia d’argento Goodwill Games, per chiudere con un settimo posto ai Giochi a cinque cerchi di Bercellona nel ’92. Arrivava in Calabria con anche un’esperienza decennale maturata anche nel campionato italiano tra Serie A2 e A1 di cui quattro con la Lube Macerata.

Lo abbiamo intervistato nel prosieguo del nostro viaggio nella storia della società calabrese e, sin dalle prime battute, viene fuori la personalità di un uomo forte e deciso, ambizioso, quasi severo con se stesso: “Sono soddisfatto del mio percorso – ha detto – ho vinto tanto ma avrei potuto vincere anche la medaglia d’oro alle Olimpiadi”. Un concentrato di carisma e carattere che sono serviti per farsi eleggere l’uomo-spogliatoio della Tonno Callipo del 2002-2003 in cui si è contraddistinto anche per la sua bravura e ‘cattiveria agonistica’: ha concluso il torneo con 435 punti aggiudicandosi il titolo di miglior realizzatore di squadra. Un interprete perfetto per la formazione calabrese che era in piena lotta per conquistare un posto in Serie A1. Un atleta che illuminava tutti con la sua classe ed una forza dirompente, in campo era sempre l’ultimo ad arrendersi.

Yuri, parlando della Tonno Callipo qual è il primo ricordo che ti viene in mente?

Penso subito ad una stagione entusiasmante ma anche sorprendente. Abbiamo raggiunto risultati che erano contro ogni pronostico. In Coppa Italia non eravamo di sicuro la squadra favorita. Quelle però furono due belle partite, dure da morire. Nella semifinale contro Forlì è stata una vera battaglia. Quel giorno ho giocato da opposto perché Kirchhein era fermo per infortunio. Con la Callipo sono stato molto bene e avrei voluto rimanere anche l’anno successivo ma sono state fatte scelte diverse. Se ci penso provo ancora un po’ di amarezza…”.

Raccontaci un po’ il tuo legame con la città?

Non avevo molto tempo per andare in giro. Ho stretto un bel rapporto di amicizia con l’avvocato Michele Ferraro e con il ds Chico Prestinenzi. Quella del posto era gente sempre col cuore aperto, si metteva a disposizione per qualsiasi cosa mi servisse. Questo modo di fare è una caratteristica delle persone che ho conosciuto nel Sud Italia. Avevo la sensazione di stare in famiglia”.

In quell’anno i tuoi compagni erano, tra gli altri, Della Nina, Iurlaro, Belardi, Kirchhein. Con loro che rapporto avevi?

Molto buono, non ci vedevamo solo in allenamento ma spesso eravamo insieme fuori dal campo: credo sia un aspetto importante nella buona riuscita di un campionato. Purtroppo abbiamo perso i contatti dopo 18 anni. Io, ad esempio, sono anche tornato in Russia e non c’è stato più modo di rivederci”.

Chi era il leader nello spogliatoio?

Forse – ammette – proprio io. In quegli anni più che oggi i giocatori forti e con più temperamento erano gli stranieri. Durante le partite difficili loro avevano uno sprint in più risolvendo i punti decisivi e se non ricordo male proprio a Gioia del Colle nella finale di Coppa Italia l’ultimo punto lo realizzai io”.

Sei rimasto nel mondo della pallavolo?

Sì, sto allenando una squadra di A2 maschile della mia città a San Pietroburgo. Sono qui con la mia famiglia e sto bene: mio figlio compie 5 anni in questo mese. Negli anni passati ho sempre girato il mondo ma i bambini ad un certo punto hanno bisogno di stabilità, di mettere radici in un posto. Per cui adesso sono a casa mia, qui ho gli amici e soprattutto la pallavolo. É il mio mondo, non so cosa farei senza”.

Nel tuo palmares spicca la medaglia d’argento alle Olimpiadi? Che ricordo hai di quella esperienza?

Sì, a Seoul nel 1988. Adesso posso dire che si tratta di un sogno realizzato, certo sono stato ad un passo dalla medaglia d’oro. Sappiamo bene che l’obiettivo della vita di ogni atleta che fa sport ad alto livello è vincere l’oro. Magari quella medaglia mi manca un po’ ma alla fine ho vinto altri titoli: Coppa del Mondo, Europei ed ho fatto anche 8 anni nella Nazionale russa”.

C’è qualche partita che avresti voluto rigiocare?

“È difficile scegliere, ce ne sono state moltissime che avrei voluto rigiocare. Partite con una lacrima nel cuore ed altre invece con una gioia enorme. È complicato ricordarle tutte”.

Le tue esperienze italiane sono state tante: Prato, Latina, Macerata, Ferrara, Bologna, Livorno. Ti sei trovato bene ovunque?

“Mi consideravo un lavoratore e il mio compito principale, in qualunque città andavo, era quello di giocare e possibilmente farlo bene. Non avevo molto tempo per trovare nuove amicizie o girare l’Italia: la mia testa in quegli anni era solo per la pallavolo e per la mia famiglia”.

Ritornando ai ricordi del campo, ti viene in mente un giocatore forte che ti preoccupava particolarmente?

“Assolutamente nessun timore. Anzi, per me era ancora più stimolante giocare contro una squadra in cui ci fossero 2-3 giocatori di alto livello. Era una sorta di sfida e facevo di tutto per vincerla. In quel periodo i più forti erano quelli della Nazionale italiana, ad esempio Zorzi, Bracci, Bernardi, Cantagalli”.

C’è un allenatore che ti ha insegnato più degli altri?

“Penso Vjačeslav Platonov, anche lui russo, il migliore del secolo scorso che ha vinto tanto”.

Ci racconti a quale credo ti ispiri oggi come allenatore?

“Metto al servizio dei giovani la mia esperienza maturata durante una carriera molto lunga. Ho fatto 12 campionati in Italia e ho giocato in Russia sia prima che dopo. Non penso che ci siano tanti altri miei colleghi che possano vantare un percorso simile al mio. Lo dico senza falsa modestia. Da giovane sono stato un pallavolista di alto livello, e poi ho avuto delle gran belle soddisfazioni come allenatore tra cui 4 finali dei tornei nazionali russi. La scuola italiana e quella russa hanno molte differenze ma io sono riuscito a fare una sintesi di entrambe e così nella mia gestione tecnico-tattica e fisica ho preso spunto dalle mie esperienze positive”.   

Ti è capitato di seguire la Callipo dopo quella stagione a Vibo?

“In verità dopo Vibo andai a Taviano per poi ritornare definitivamente in Russia, per cui non ci sono state tante occasione per rivederla, neppure in tv. Poco tempo fa però ho ritrovato un cd di una gara proprio di quella mia stagione a Vibo. Si trattava di Callipo-Forlì, semifinale di quella Coppa Italia, poi vinta. In quell’occasione giocai da opposto come ho raccontato prima: l’ho rivista con grande piacere perché fu una partita molto bella, vinta 3-2, con degli avversari molto forti”.

Ricordi qualche parola del dialetto ‘calabrese’?

“No – sorride – è molto difficile, è una lingua molto particolare. Come magari per voi lo sarà sicuramente il russo. Ho imparato l’italiano perché vivendo lì era necessario. Dovrebbero farlo tutti gli atleti stranieri anche se personalmente ho conosciuto molti americani e nessuno di loro aveva molta voglia di imparare la vostra lingua”.

Infine Cherednik prima di congedarsi ci ha confessato un suo desiderio…

“A me sarebbe piaciuto tornare in Italia per fare l’allenatore e pensavo proprio a Vibo. Ricordo Vibo Valentia come un posto pulito e tranquillo dove potrei lavorare molto bene. Saluto il presidente Pippo Callipo e tutti i tifosi giallorossi”.

In foto un attacco da posto 4 del russo Cherednik.

UFFICIO STAMPA

Rosita Mercatante

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