Antonio Corvetta è molto più di un “semplice” palleggiatore di A1. E a conoscerlo bene si dà ragione al Presidente Guido Molinaroli che, per salutare la partenza dell’atleta da Piacenza, ha affermato: “Grande uomo, grande ragazzo, grande atleta. Uno dei giocatori più piacevoli che ho conosciuto e con cui ho condiviso l’avventura sportiva di questi anni”.
Sì, perché Antonio Corvetta, chiamato da tutti “Corvo”, rispecchia perfettamente quella descrizione: una volta che si ha a che fare con lui si rimane completamente stregati, incuriositi e invogliati a conoscerlo più a fondo. Lui che sa stupire sia dentro che fuori dal campo, vuoi per le doti sportive o umane, lui che anche nei momenti di difficoltà ha la parola adatta per ripristinare la calma (vedi i vari suggerimenti nel corso di match importanti rivolti a De Cecco), lui che nonostante una stagione non in prima linea non ha mai scalpitato o messo i bastoni tra le ruote, lui che nonostante gli impegni sportivi e la vita frenetica riesce a raccontare una piccola parentesi della sua vita nelle righe di un coinvolgente libro, intitolato, non a caso, “Il viaggio”.
Questa la sua ultima intervista con la maglia biancorossa della Copra Elior. Un in bocca al lupo, speciale proprio come lui, va all’amico Corvo per le prossime stagioni.

Partiamo dal principio: cosa ti ha spinto ad avvicinarti alla pallavolo?
La pallavolo è sempre stata una cosa che covavo dentro da molto tempo, un po’ anche per mio padre, giocatore professionista di A1 a Ravenna negli anni ’60. Lui tuttavia non mi ha mai spinto a intraprendere questa strada, sono stato io che, autonomamente, mi sono avvicinato a questo sport: avevo il grandissimo desiderio di giocare, ero uno di quei ragazzini appassionatissimi, fissati e informati su tutte le caratteristiche degli atleti. Ho iniziato a muovere i primi passi nelle giovanili di Ancora, poi devo dire che la mia crescita è stata molto veloce: in poco tempo mi sono ritrovato a giocare nella Lube che, allora, era in A2. Credevo talmente tanto in quello che stavo facendo che per un periodo ho anche “lottato” con i miei genitori che, mezzi disperati, mi rincorrevano per tutta l’Italia.

A Corigliano probabilmente hai vissuto il momento più bello della tua carriera. Quali sono stati gli altri episodi che ti sono rimasti nel cuore?
Oltre a Corigliano ci sono stati tanti altri episodi di cui ho scattato un’istantanea che è lì, nella mia mente. Una su tutte è la vittoria del Campionato di A2, nella stagione 2010-2011, con Ravenna. Avrei voluto scrivere anche di quella splendida e impagabile esperienza ma coach Babini mi ha rubato il soggetto prima che mi mettessi a scrivere (ride): infatti è stato lui a raccontare di quella stagione epica nel suo libro “I ragazzi che fecero l’impresa”. Corigliano rimarrà sempre nel cuore, è stata la mia esperienza più coinvolgente e più lunga: ho vissuto a Corigliano per 4 lunghi anni e in tutto quel tempo ho avuto la possibilità di calarmi nel tessuto sociale. Mi piace vivere ogni luogo in cui lavoro e in quell’esperienza l’ho fatto appieno, mi sentivo integrato e parte integrante. In quei 4 anni sono cresciuto sia come giocatore che come uomo. Arrivato a Ravenna abbiamo avuto subito una stagione esaltante, culminata con la vittoria; è stata un’esperienza molto bella, questo anche perché si era creato un ambiente familiare: ci conoscevamo già tutti essendo, la squadra, creata da atleti e staff autoctoni. Ci sono stati episodi memorabili anche nel periodo delle giovanili, ma torneremmo troppo indietro.

L’importanza del ruolo del capitano.
I dirigenti di Corigliano in me hanno visto sempre questa caratteristica probabilmente anche grazie alle mie capacità di tenere le righe, fare la voce grossa e indirizzare chi ha perso la via. Ho sempre lavorato per gli altri, per il gruppo, e mai per me o per il singolo. Anche in questa stagione, nonostante la poca presenza in campo nel corso delle partite, ho avuto modo di dare una mano, un contributo, perché quando si arriva al fine desiderato, la vittoria, tutti stanno bene. La figura del capitano è un ruolo di responsabilità e un punto di riferimento per tutta la squadra. Mi sono sempre preso volentieri quella responsabilità.

Nel tuo libro parli spesso di filosofia.
Nonostante la mia carriera sia partita quando io ero molto giovane, ho sempre studiato; è giusto che ogni individuo abbia una cultura. Ho voluto scrivere questo libro anche un po’ come sfida personale, volevo vedere se riuscivo nell’intento di creare una storia completamente incentrata sulla pallavolo. Alla fine tutto è venuto molto spontaneamente, il ritorno in macchina da una stagione passata in Calabria e il tempo a disposizione di quell’ultima “traversata” mi ha permesso di ragionare e concretizzare il concetto che con quell’ultimo viaggio si chiudeva un capitolo. Allora ho capito che dovevo fissare gli attimi vissuti: mi sono fermato e ho comprato istintivamente un block notes e una penna, su cui ho subito appuntato dei pensieri sparsi e confusi che poi, con più calma, avrei sistemato andando a creare la storia che poi si legge nel libro.

Sempre nel tuo libro si scopre un Antonio Corvetta curioso della vita e tuttofare. La tua passione per la musica.
La musica è una di quelle cose che mi sono imposto come sfida personale. Anche in questo campo ho iniziato da piccolo, anche la musica fa parte della mia famiglia: quando entri a casa mia una delle prime cose che incontri è lo stereo e il basso. Il mio primo strumento è stato una fisarmonica, uno strumento molto complicato, difficile da suonare e molto impegnativo. La scelta mi è stata quasi imposta e prima di iniziare ad odiare quello che stavo facendo, sono passato a dedicarmi alla chitarra classica con un successivo passaggio alla chitarra elettrica. Ad un certo punto mi sono bloccato anche su questa: non riuscendo a eseguire un accordo di una canzone dei Metallica, ho abbandonato la chitarra e non ho più voluto sapere di uno strumento musicale per due anni. Fin da piccolo sono sempre stato incuriosito dalla figura del bassista e un Natale, passando davanti alla vetrina di un negozio, mi ha catturato la visione di un basso: l’ho comprato. Ho iniziato così a studiare da autodidatta. L’anno scorso a Ravenna ho fatto parte di un gruppo e, anche se non mi sentivo all’altezza, mi sono messo in gioco. Anche a Piacenza ho fatto parte di un gruppo e, con più sicurezza e grazie alle prove di tutto un inverno, siamo riusciti a creare qualcosa di bello che si è visto anche durante il Bovo Day.

Da piccolo sognavi di fare quello che stai facendo. Cosa sogni di fare “da grande”?
Sono consapevole di essermi concentrato troppo poco sul mio futuro. Per come si è sviluppata la mia carriera di giocatore mi sento della pasta di poter affrontare, un giorno, il ruolo dell’allenatore. Non so se poi questa idea si concretizzerà in un sogno o in un incubo (ride) ma credo proprio che almeno ci proverò. Così su due piedi inoltre mi viene da dire che vorrei vivere a Marina di Ravenna dove spero di aprire un bagno al mare con i miei amici più cari, progetto che stiamo già valutando da un po’ di tempo e che mi permetterebbe di portare avanti anche la carriera all’interno della pallavolo.

Ci sarà una sorta di “Il viaggio 2”?
Non credo. Scrivere “Il viaggio” è stata una cosa estemporanea. Per scrivere un libro prima bisogna avere qualcosa da dire, da raccontare. Una storia creata ora conterrebbe episodi troppo frammentati. Mai dire mai però.